Il libro di Sacks conferma la ricchezza e le promesse di un approccio che sarebbe riduttivo mettere sotto il solo ombrello della narrativa clinica. Il successo e lo stile di Oliver Sacks non sarebbero infatti comprensibili per intero se trascurassimo di considerare l'interesse crescente nei confronti del "racconto della malattia" che, soprattutto nei paesi anglosassoni, ha dominato la letteratura medico-antropologica o antropologica tout court degli ultimi vent'anni (si è parlato a questo proposito di literary turn e di fascination of narrative). I suoi dettagliati ma al tempo stesso umani resoconti di sindromi e patologie, l'analisi dei loro concreti effetti sulle persone, vengono costruiti attraverso un ascolto attento, che registra sin nei più contraddittori interstizi l'esistenza quotidiana dei suoi pazienti (dei quali è messa in primo piano la illness, insomma, più che la disease). Questo singolare modo di avvicinarsi all'esperienza della sofferenza gli permette di portare alla luce ciò che altrimenti rimarrebbe inespresso o, come più spesso accade, ai margini semplicemente perché considerato "superfluo" secondo i modelli egemoni della razionalità medica. Young ha analizzato proprio in questi termini il contemporaneo potere della biomedicina: nella sua capacità cioè di silenziare altri nomi o cancellare altre conoscenze.
A questa prospettiva l'autore non può d'altronde essere per intero ricondotto. Sacks è cioè un medico, un neurologo estremamente colto e competente che diagnostica, cura, sperimenta insuccessi, e che registra lacrime e speranze dei suoi malati su pagine dove corrono intrecciate alle prime le parole di quella ricerca e di quella pratica clinica di cui non vengono messi in discussione come potrebbero i fondamenti (tranne che per sottolinearne gli schematismi cartesiani o le diffidenze verso ipotesi e approcci, quelli dello stesso Sacks ad esempio, che non ricalchino il corso della "scienza normale"). Nel descrivere questo, nel "dar voce" ai contraddittori vissuti di un pittore che perde la visione dei colori dopo un incidente, di una paziente affetta da autismo che prova a inventare "macchine per abbracciare", di un chirurgo affetto dai tic e da altri sintomi della sindrome di Tourette (sulla quale Nathan ha attirato in anni recenti l'attenzione), Sacks attivamente trasforma il racconto dei suoi interlocutori "unici" (ed è questo un problema che, trascendendo la tradizione dei "casi clinici", si è imposto al centro del dibattito su authorship e testualità). Per lui esistono le malattie, le stesse in ogni luogo e epoca, che solo col tempo verranno riconosciute come tali da una scienza adeguata.
Il suo sguardo e il suo ascolto rimangono allora spesso catturati
dentro una luminosa fenomenologia del rapporto, quasi avventuroso, che
stringono quei protagonisti solitari che sono il medico e il paziente,
mentre non vengono colti con altrettanta attenzione il contesto
istituzionale, i rapporti di forza tra i diversi attori, il difficile
accesso alle cure sanitarie di minoranze e poveri negli Stati Uniti, e
quant'altro in genere converrebbe non più dimenticare quando si esplora
l'accidentato territorio della salute e della malattia. Se questo
costituisce un limite nella sua opera, rimane indiscusso il pregio di
una scrittura che sembra aver realizzato una sorta di prodigio là dove
dimostra come l'approccio narrativo alla malattia rappresenti una
risorsa decisiva nel costruire una biografia dotata di significato; ma
un altro prodigio di sintesi fra voci e linguaggi diversi è realizzato,
con la naturalezza di cui gli scrittori anglosassoni danno sempre
lezione, a un altro livello: il mind-body problem, il dilemma fra
attività volontaria e involontaria, e altre questioni propriamente
"epistemologiche" (nel senso che questo termine ha nella cultura
statunitense), fanno capolino discreto fra interrogativi diagnostici e
vissuti della malattia. Dentro questi sette racconti, che "paradossali"
sono però solo se si leggono dal luogo della ragione medica e del suo
dispositivo retorico (per il quale "salute" e "malattia" possono essere
concepite soltanto come entità antinomiche), spiccano quelle metafore
dense e irriducibili, dotate di uno strano potere, che i pazienti speso
ci offrono quando parlano delle loro esperienze. In esse, sembra dirci
l'autore, si celano le tracce da seguire per comprendere, forse meglio
che attraverso ogni altra teoria o esame diagnostico, l'altrui domanda
e la complessa condizione di chi sperimenta la rottura di
quell'involucro invisibile che è la salute e la normalità. È l'uso di
queste stesse metafore che ci permette talora di sostenere il paziente
anche laddove l'unica soluzione possibile (ciò che la scienza medica
per prima fa fatica ad ammettere) è apprendere a convivere con i limiti
che la malattia innalza, cogliendo tutto quanto in lui si dispiega e
vive nonostante la malattia.
Un'interessantissima discussione sulla sindrome di Charles Bonnet e lo strano fenomeno delle allucinazioni visive
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